APPUNTI DI VIAGGIO: LA SIERRA LEONE RACCONTATA DA SERENA CAIMANO. PARTE 2
Giorno 1
“Io, Massimo e Silvano* arriviamo a Freetown che è già sera. Ci accoglie un muro di umidità e la penombra dei luoghi, qui dove anche l’energia elettrica è un bene scarso.
Usciti dall’aeroporto, camminiamo nel buio verso l’imbarcadero e sollevo la mia piccola valigia perché non si sporchi: l’asfalto è solo per la carreggiata delle automobili, il resto è terra battuta polverosa.
Al di là del tratto di mare che separa la città dall’aeroporto ci accolgono premurosi Giacomo e Laudana, che a Freetown vivono.
Parliamo a lungo ed è evidente fin da subito che i nostri mondi sono distanti. O forse sono io che sono fuori dal mondo. La mia familiarità con il contesto africano e i suoi problemi si dimostra chiaramente fin dalle prime battute scarsissima, da lettrice di Internazionale.
Verso mezzanotte è proprio ora di andare a dormire. Faccio fatica ad addormentarmi: dalla spiaggia arriva la musica di un baracchino, il volume è fuori da ogni logica, più forte di una discoteca”.
Giorno 2
“Nel tratto di strada che compiamo per raggiungere la sede COOPI vedo Freetown alla luce del sole. C’è traffico e ai bordi sporchi e polverosi della strada si muove un carosello umano chiassoso: pedoni che si fanno strada tra ostacoli, ambulanti con ceste sulla testa, mamme che procedono con il bimbo sulla schiena, animali che scorrazzano, perditempo che guardano le auto, adolescenti in capannelli rumorosi. Tutti stanno andando da qualche parte, di solito in ciabatte o infradito, qualcuno a piedi scalzi. Solo chi veste un’uniforme ha le scarpe. Fa caldo ma il vero disturbo è l’umidità, quasi insopportabile. Fin dal mattino si convive con la sensazione di essere sporchi e appiccicosi.
Facciamo una sosta nella sede di Coopi. Giacomo mi racconta che il principale finanziatore è la Comunità Europea, che svolge spesso degli audit alla Missione visitando il paese e controllando i documenti amministrativi in quella sede. Il progetto di Coopi in Sierra Leone è quindi continuamente controllato, tanto quanto quello di una società privata.
Per illustrarmi il progetto, Giacomo mi racconta il contesto. La Sierra Leone è un paese che ha molte risorse naturali, il cui beneficio non ricade però sulla popolazione ma è in mano a pochi e spesso stranieri. Il risultato è che la Sierra Leone non esporta quasi nulla e che la bilancia dei pagamenti è fortemente sfavorevole allo sviluppo, con un effetto ulteriormente deprimente per l’economia del paese. Pertanto, l’obiettivo di COOPI con il progetto Anacardi è quello di attivare una filiera produttiva che parta dalla coltivazione delle piante donate alla popolazione e arrivi all’esportazione degli anacardi ad imprese straniere. Inizialmente COOPI ha dovuto faticare per far comprendere alle persone l’opportunità di piantare gli alberi di anacardio. Le ragioni della resistenza è che aspettare 4-5 anni dal momento della piantumazione al momento in cui l’albero dà i primi frutti era semplicemente inconcepibile nella loro mentalità. COOPI ha quindi attivato molta formazione e ha insegnato ai beneficiari del progetto a intervallare agli anacardi altre colture a rendimento immediato, per sostentarsi nell’attesa che la pianta inizi a produrre i frutti. Un’altra resistenza che COOPI ha dovuto superare attraverso la formazione era costituita dalla falsa credenza che l’anacardio fosse un frutto velenoso (lo è soltanto l’involucro).
Gli anacardi hanno un valore di mercato molto elevato, più del caffè e del cacao, e la cooperativa serve per la vendita del frutto, che nel 2017 è avvenuta per la prima volta con l’esportazione di due container ad una società olandese. Per la Sierra Leone questo risultato, che rappresenta solo un punto di partenza, è straordinariamente importante perché si configura come una delle pochissime esportazioni del paese.
Quando ho incontrato i contadini la loro gratitudine e la loro speranza erano tangibili e mi ha fatto pensare a quanto poco ci voglia, da parte di persone e popoli ricchissimi come il nostro, a sostenere progetti importanti per chi sta peggio.
Per pranzo, ci portano poco fuori città in riva al mare, su una spiaggia. Anche quanto vedo ora è irreale. Irreale per la sua incontaminata bellezza. Una spiaggia di sabbia bianchissima, ombrelloni e sdraio, mare tropicale dove persone prevalentemente bianche fanno il bagno divertendosi allegramente. È domenica, e gli espatriati di Freetown vengono qui a divertirsi. Io rimango attonita. Penso come possano l’inferno e il paradiso vivere a così poca distanza l’uno dall’altro, e a come non siano i luoghi a determinare da che parte stare, ma è il comportamento dell’uomo che lo determina.
Verso sera raggiungiamo un campo di calcetto: è in corso una partita. Portieri a parte, tutti i giocatori di entrambe le squadre hanno una gamba sola, e si muovono abilmente con le stampelle. È valido sia colpire la palla con la gamba che hanno, sia colpirla con la stampella, l’abilità con cui usano sempre due dei tre appoggi di cui dispongono è sorprendente. Sono giovani, eppure sono invalidi di guerra: durante il conflitto civile che è terminato nel 2002 sono stati mutilati dalle forze avversarie, evidentemente erano dei bambini. Non mi faccio nessuna idea di quello che vedo, non penso a niente, è troppo più grande di me.
Giorno 3
La giornata ha come obiettivo la visita alla scuola di Krissi sostenuta da COOPI. Arrivati in sede il mio cuore si ferma. Nello spazio antistante le aule, all’ombra, un’ottantina di bambini di diverse età sono seduti per terra nella polvere, ci danno la schiena e ascoltano qualcosa che sta dicendo loro la maestra, che li sta intrattenendo in attesa che arriviamo noi, in clamoroso ritardo. Hanno tutti il grembiulino e sono semplicemente stupendi. Nonostante le minacce della maestra che è persino armata di frustino, quando arriviamo i bimbi si voltano e si accende l’entusiasmo, cominciano a schiamazzare e ad agitarsi, cercando di alzarsi, “opoto, opoto, opoto”.
Finalmente le righe si rompono e ritorno a respirare. Ma i meravigliosi bimbi non se ne vogliono andare, tutti vogliono battere il 5, tutti ci vogliono guardare e sorridere, tutti si mettono in posa per una foto con i nostri smartphone e poi vogliono vedere come è venuta. Saltano, ridono, si spingono, come i bimbi di tutto il mondo. Siamo proprio tutti uguali, è così evidente.
Le famiglie fanno enormi sforzi per mandare i bimbi a scuola, che è molto cara. La sfida di COOPI è che continuino a studiare, che non interrompano le lezioni. Il sistema educativo è molto arretrato, che il modo di insegnare è ridicolmente nozionistico, che tutto quello che fanno i professori è insegnare quanti abitanti ha un paese o come si chiama il tal fiume. I fortunati che raggiungono il nostro Occidente devono lavorare tanto per mettersi a pari con i nostri studenti.
Ci raggiunge Giacomo e in auto: è ora di avviarsi verso Makeni, la città dell’entroterra dove passeremo i successivi due giorni. Lungo la strada asfaltata le emozioni, lo strascico delle notti agitate, il caldo hanno il sopravvento e mi addormento.
Arrivati a destinazione mi trascino nella mia stanza dove crollo distrutta dalla stanchezza e dalle emozioni.
*Serena Caimano parte dall’Italia in compagnia di Massimo Salvadori, Area Manager West Africa, sede COOPI di Milano, e del fotografo e videomaker Silvano Pupella. In loco, condividerà il viaggio con Laudana, Amministratore progetto COOPI in Sierra Leone e Giacomo Mencari, Head of Mission Coopi Sierra Leone.